Marco Ligabue: “La mia vita da fratello in un libro”

di Giampaolo Corradini

Un cognome che ama e del quale è orgoglioso, ma che a volte può essere ingombrante. Specie quando fai il musicista, ti chiami Ligabue e tuo fratello è una delle più grandi rockstar italiane degli ultimi cinquant’anni. Marco Ligabue, cantautore e ora anche scrittore, ha “scelto” di vivere questa situazione con un sorriso, che è poi il modo con il quale affronta ogni situazione. Arrivato a cinquant’anni, ha deciso di scrivere un libro che racconta la sua vita, all’ombra del fratello maggiore Luciano, con il quale ha un rapporto molto stretto, e che guarda alla vita, alla musica, all’Emilia, a Correggio con uno sguardo solare, ottimista e assolutamente autoironico. A partire dal titolo: “Salutami tuo fratello”. Libro che non è passato inosservato, dal momento che sta ricevendo recensioni entusiastiche, regalando a Marco molte soddisfazioni e una grande visibilità.

Marco, da dove viene questo libro?

“Non avrei mai pensato di scrivere un libro in vita mia – sorride Marco – ma un anno e mezzo fa un giornalista mi ha detto che compiendo 50 anni era arrivato il momento di raccontare la mia storia, che è estremamente singolare in ambito musicale. Mi sono incuriosito rispetto all’idea di scrivere un libro. Ho cominciato a scriverlo e mi sono appassionato. Da questo punto di vista il lockdown mi ha agevolato. Dentro al libro c’è la storia di un tizio al quale da cinquant’anni dicono ‘salutami tuo fratello’. Prima gli amici e parenti che, in qualità di fratello minore, mi chiedevano di portare i loro saluti a Luciano. Dal 1990, anno in cui Luciano è esploso con ‘Balliamo sul mondo’, me lo dicono praticamente tutti! Ho cercato di vivere di luce mia nonostante un cognome che poteva mettermi in ombra. Ho pensato che fosse arrivato il momento di mettere in fila certe storie”.

Facendo musica come tuo fratello, non hai mai avuto la tentazione di utilizzare un nome d’arte?

“Ho fatto il chitarrista in due band, non era nei piani che io iniziassi a cantare. Poi, a quarant’anni, è scattata una molla: ho cominciato a scrivere tantissimi pezzi nuovi, diversi, che mi hanno spinto a fare il cantautore. Solo allora mi sono posto il dubbio: esco come Marco Ligabue o con uno pseudonimo? Ma ho scartato subito l’idea di un nome d’arte, perché mi sarebbe sembrato di fuggire. Sono orgoglioso del mio cognome, che è quello che mi ha dato mio padre, e io volevo orgogliosamente uscire con il mio cognome, consapevole delle conseguenze, positive e negative, che questa scelta avrebbe comportato”.

Se si pensa ai fratelli in ambito musicale sono davvero pochi gli esempi di rapporti positivi. Penso ai fratelli Gallagher degli Oasis, ai Davies dei Kinks, agli Almann. Forse l’unico esempio positivo che mi viene in mente è quello dei fratelli Townshend, degli Who, tra i quali ci sono – forse non casualmente – oltre dieci anni di età di differenza. Tu invece hai sempre dichiarato di avere un rapporto molto positivo, profondo con Luciano. Come mai, secondo te?

“Confermo che anche nell’ambito della musica italiana sono pochi i rapporti tra fratelli musicisti che funzionano. Probabilmente la grande visibilità, la grande popolarità, le pressioni e le difficoltà che incontri facendo lo stesso mestiere ti fanno fare fatica. Io e Luciano abbiamo un grande rapporto. L’ho invitato a cena appena finito di scrivere il libro e gli ho spiegato che parlava di me ma che anche lui era bene presente, compresi angoli privati e famigliari. Gli ho lasciato il manoscritto da leggere. Subito il giorno dopo mi ha chiamato per dirmi che il libro gli era piaciuto molto e che avevo una rara visione del mondo, forse perché ho sempre questa positività e questo ottimismo. Poche ore dopo mi ha scritto una mail dove ha messo su carta le sue sensazioni, frasi che poi ho messo sul retro di copertina”.

Quanto pesa, su di te, il cognome Ligabue?

“Alcune cose sono difficili da accettare. Il libro ha la forza derivante dal fatto che mi metto a nudo: non c’è autocelebrazione, ma il racconto delle mie fragilità. Descrivo, ad esempio, senza alcuna remora di quella volta in cui sono andato in una grande radio per fare ascoltare un mio pezzo al quale credevo molto. Mi hanno sono sentito rispondere che passavano già un Ligabue e che non gliene serviva un altro… Faccio davvero tanti concerti nelle piazze d’estate, ed è una grande esperienza: si parte con la piazza che si riempie un poco alla volta, canzone dopo canzone trovo una bella empatia col pubblico. Alla fine scendo la scaletta del palco sentendomi un gran figo, ed è allora che tutti mi avvicinano per chiedermi di mio fratello: dopo due ore in cui hai dato tutto sul palco sono cose che ti colpiscono molto”.

E Luciano, invece? Come vive questa situazione?

“Luciano l’ha vissuta bene, fino ad ora: visto il riscontro che sta avendo il mio libro, magari da adesso troverà qualcuno che gli dirà ‘salutami tuo fratello Marco!’”.

Cosa gli invidi e cosa senti invece di avere in più di lui?

“A lui invidio il dono e l’urgenza di scrittura: Luciano sforna tante cose con una facilità e una velocità incredibile. Io scrivo 6 canzoni l’anno, lui ne scrive 60! Io, invece, credo di essere molto più empatico, estroverso, mentre lui è più riservato”.

Di cosa vai particolarmente fiero nella tua carriera?

“Di due cose: Tra via Emilia e blue jeans, la raccolta pubblicata lo scorso anno, che raccoglie il meglio di tutta la mia esperienza musicale. La seconda è un concerto che mi ha cambiato la vita. Nel 2015 mi hanno invitato in Sardegna per il festival Mondo Ichnusa. In cartellone il primo giorno c’era Fedez con J-Ax, il secondo Caparezza, preceduto da me. Ho aperto per lui davanti a 60mila persone. Appena salito sul palco, solo io e Jonatha Gasperini alla chitarra acustica, due correggesi in Sardegna, parte il coro “Caparezza Caparezza”. Attacco la seconda canzone e parte il coro per Vasco, con gestacci che non sto a descrivere dalle prime file. Dovevo fare altri quattro pezzi: potevo andare via, come avrebbe voluto il pubblico, invece ho detto chiaramente agli spettatori che dovevano stare zitti, che ero lì per suonare e che non era giusto riservarmi questo trattamento perché non ero Caparezza o perché avevo un certo cognome. C’è stato un lunghissimo silenzio, poi è partito un boato e tutti hanno iniziato a cantare i miei pezzi: ho domato 60mila persone che ce l’avevano con me, una cosa che non dimenticherò mai!”

Di fronte a episodi del genere non hai mai pensato “chi me l’ha fatto fare”?

“Mai! A volte ti scende la catena, ma solo ogni tanto, perché noi emiliani non molliamo mai. Siamo tenaci, cocciuti, testardi e la portiamo sempre a casa”.
Cosa ti aspetti da questo primo libro?
“Non so che recensione aspettarmi. Ma sono consapevole di non essere Alessandro Baricco: la cosa che ho trovato scrivendo, che mi ha emozionato molto, è che ci sono delle storie curiose a livello emotivo e di esperienze che meritavano di essere messi nero su bianco. Spero che il pubblico si ritrovi in questo spaccato di generazione, nella musica, nelle sensazioni e nelle esperienze che sono impregnate della nostra terra”.

Come sono state le prime reazioni al libro?

“I primi cinque o sei fan mi hanno detto che un capitolo tira l’altro e apprezzano la freschezza e la spontaneità della mia scrittura. In realtà vedo che si stanno muovendo molto anche i media nazionali: hanno letto il libro in anteprima e mio stanno chiamando in tanti, anche per rubriche specializzate e dedicate ai libri. Mi godo il momento, anche se per ora non ho altri progetti letterari in vista. Ma scrivere questo libro è stato un bel viaggio: la scrittura ti mette molto a nudo, mentre la canzone è breve, i testi fatti più che altro di slogan. Il libro ti permette di approfondire e mettere stati d’animo che ti danno di più, qualcosa che ha a che fare con la psicanalisi. La cosa che mi ha sorpreso è stato ritrovare certi tempi di reazione: quando fai uscire una canzone il feedback, sui social, sulle piattaforme digitali, è immediato. Per avere un ritorno su un libro devi aspettare tempi ai quali non siamo più abituati”.

Per chiudere il cerchio, anche rispetto a tuo fratello, non hai mai pensato di dedicarti al cinema?

“No, mai – ride Marco – anche se mi hanno detto che il mio libro sembra un film di Pupi Avati. Cosa che prendo come un enorme complimento. Credo sia un libro abbastanza cinematografico, che ti fa visualizzare le situazioni ed i personaggi. Sarei felicissimo se qualcuno fosse interessato a trarne un film. Sarei orgoglioso di avere l’occasione di sceneggiarlo, ma non ho alcuna intenzione di fare il regista”